Spazio-tempo e architettura. Strategie progettuali per una società liquida.
di Claudio Bosio
Finalista 2010
Sulle pagine patinate delle riviste compaiono con sempre maggior frequenza architetture in cui angoli retti e superfici piatte hanno lasciato il posto a forme fluide e superfici a curvatura complessa. Il termine comunemente utilizzato per definire queste espressioni architettoniche è blob, ma all'interno di questa definizione ricadono numerose tipologie di strutture che utilizzano forme e materiali molto differenti tra loro e, non meno importanti, molte architetture digitali non realizzate, spesso nemmeno realizzabili. Elemento che accomuna tutti questi progetti è il rifiuto di sottomettersi ad una rigida griglia cartesiana, caratteristica che comporta l'impossibilità ad adoperare gli strumenti tradizionali di lettura compositiva e che pone i critici di fronte ad una questione apparentemente insormontabile: come si può distinguere"a good blob from a bad one"? (Cachola Schmal 2001). Finora la critica ha aggirato il problema dividendosi in due fazioni nettamente contrapposte, da un lato ci sono coloro che amano i blob e dall'altro coloro che li odiano. I primi difendono a spada tratta le complesse evoluzioni plastiche, ma evitano attentamente di dare un giudizio di valore alle singole opere, limitandosi a verificare se le intenzioni espresse dall'architetto siano state trasferite nel progetto, alla ricerca di una mitizzata coerenza personale (Purini 2000). I secondi invece, asserendo che i blob siano privi di tettonica, negano loro lo statuto di"architetture" escludendoli a priori dal dibattito critico. Ripercorrendo l'itinerario organico tracciato da Zevi nella sua Storia dell'architettura moderna, risulta però evidente che i blob non possono essere classificati semplicisticamente come invenzioni assurde figlie (desiderate o no) della rivoluzione digitale, ma devono essere innalzati ad architetture a pieno titolo, che affondano le loro radici in un filone della storia dell'architettura per lungo tempo considerato secondario. Il desiderio di dare forma all'assenza di forma è l'elemento che accomuna questi progettisti. Se la ricerca di una morfologia dell'informe ha portato Gaudì a rielaborare le complesse geometrie della natura, o Mendelsohn a sviluppare masse plastiche che paiono disegnate dal vento, è solo a partire dagli anni '60 del secolo scorso che alcuni architetti sono riusciti ad allontanare la propria attenzione dalla forma sensibile, iniziando a considerarla non più come fine della propria ricerca, ma solamente un mezzo necessario per rappresentare le proprie idee. Nel 1959 Frederick Kiesler disegna la Endless House,"casa informe squarciata da arcane fonti di luce"(Zevi 1996), concepita come un organismo vivente che sarebbe cresciuto lentamente, per successive addizioni, senza una volontà di forma definitiva; nel 1966 Michael Webb progetta Cushicle e nel 1968 Suitaloon, unità abitative"indossabili" e agevolmente trasportabili che possono essere gonfiate ed utilizzate in ogni momento e luogo. Sempre del 1968 è il progetto Cuore giallo di Haus-Rucker-Co, l'installazione, il cui fine è creare un'alterazione nella coscienza dei visitatori, era costituita da una capsula definita da una serie di camere d'aria che, grazie ad un sistema pneumatico, venivano alternativamente gonfiate con un ritmo pulsante. Questi progetti esprimono il desiderio di prendere le distanze da ogni approccio dogmatico, dichiarano a gran voce la volontà di violare le regole precostituite, di scuotere la società dall'immobilismo che la caratterizzava. Negli anni '60 infatti la metafora adottata per descrivere l'organizzazione della società è la struttura: un'entità rigida, che incasella, limita i movimenti e impedisce la libertà del singolo. Ma la struttura è allo stesso tempo una cosa che se non funziona può essere spezzata, da cui si può uscire con le proprie forze, ed è proprio grazie alla rigidità di tale condizione sociale che le architetture possono esprimere il loro intento enfaticamente provocatorio. Il progetto è utilizzato come puro strumento per rivoluzionare la società, non vi è alcun desiderio di creare nuovi archetipi, non vi è l'intento di rifondare l'architettura, ma solamente quello di uscire dalla rigida morsa di una struttura che immobilizza. L'operazione intrapresa è estremamente raffinata, gli architetti non si limitano a creare nuove forme, ma negano l'idea stessa di forma stabile e definitiva introducendo una nuova variabile nei propri progetti: il tempo. Queste architetture sono oggetti mobili, che camminano, si evolvono, crescono, si gonfiano e si sgonfiano perennemente, sono progetti che nascono per la nuova generazione che rifiuta l'immobilismo e cerca l'interazione sociale e, non meno importante, che inizia a conoscere il mondo attraverso le figure animate del televisore (una semplice immagine non è più in grado di descrivere le idee, anche sulla carta le architetture vengono rappresentate come sequenze evolutive, diagrammi o fumetti). Il progetto che probabilmente esprime al meglio questa ricerca di dinamicità è la proposta di Maurizio Sacripanti per il padiglione italiano all'Expo di Osaka (1968-69), in cui 14 lame circolari ruotando con movimento indipendente, animano il mantello di plastica che funge da involucro esterno, dando vita ad una serie infinita di conformazioni possibili."L'«oggetto» non è più considerato; i dettagli disegnativi, infine, non contano più, bruciati da una concezione che sostituisce il movimento all'immagine, la fruizione ininterrotta alla contemplazione"(Pedio 2000). Oggi nessun progetto potrebbe racchiudere la carica eversiva che conteneva il padiglione espositivo di Sacripanti nel 1968, semplicemente perché non esiste più una struttura contro cui potersi scagliare. Con l'avvento delle nuove tecnologie e la conseguente implosione del tempo necessario a comunicare, le distanze fisiche, che da sempre hanno limitato la spazialità delle società, perdono la loro fondamentale importanza, almeno per coloro che possono agire con la velocità dei messaggi elettronici (Bauman 1998). L'organizzazione della società, privata del tradizionale rapporto tra spazio e tempo, assume quindi caratteristiche differenti, sintetizzate dai sociologi nella metafora della rete. Differentemente dalla struttura, la rete è una maglia flessibile e irregolare costituita da connessioni che prescindono dall'ubicazione spaziale dei suoi nodi, in cui perdono significato le distanze fisiche. Caratteristica fondamentale della rete è però la possibilità di disconnettersi con estrema facilità; ci si può tirare indietro non appena si perde interesse a mantenere attiva la connessione, per l'insorgere di conflitti, noia, o più semplicemente perché sono esauriti i vantaggi che questa relazione garantiva. All'interno della rete si muovono gli individui, che si comportano al pari di un fluido privo di coerenza interna, assumendo la forma dei contenitori in cui di volta in volta si riversano,"avendo ben pochi motivi per accordare una rilevanza topica a qualsiasi cosa si opponga all'essere risucchiata nell'ambito dell'interesse personale e regolata dagli strumenti propri di una visione egocentrica"(Bauman 2000). Nella società individualizzata di Bauman ciò che conta è l'esperienza personale, l'egocentrica emozione che, per poter essere goduta appieno, deve essere prolungata il più a lungo possibile arrestando, o per lo meno rallentando, il flusso della friabile materia della vita. Non è infatti un caso se il film Matrix (2000) è diventato oggetto di culto già all'esordio nelle sale cinematografiche. Prima ancora della complessità della trama e del fascino delle atmosfere cyberpunk mutuate dal fumetto, è stata l'innovativa tecnica di ripresa delle scene di combattimento, denominata"bullet time", a garantire l'immediato successo del film. Tale tecnica, ideata da John Gaeta appositamente per questo film, consente grazie all'utilizzo coordinato di 120 macchine fotografiche e due macchine da presa, di alterare lo scorrere del tempo,"congelando" il momento di massima tensione dinamica dell'azione e rendendo possibile la contemplazione degli attori sospesi nel vuoto attraverso un movimento di camera surreale. È il momento in cui la prestazione fisica supera i limiti delle possibilità umane ad essere esaltato; il rallentamento del flusso inarrestabile del tempo in corrispondenza dell'istante topico dell'azione sembra essere la perfetta messa in scena delle aspirazioni degli individui che vivono la modernità liquida. Anche la progettualità degli spazi architettonici sembra aver subito lo stesso processo messo in atto nella pellicola dei fratelli Wachowski. Quello che viene offerto oggi da architetti quali Greg Lynn, NOX Architects, Marcos Novak o Zaha Hadid, non è infatti un semplice progetto architettonico, ma un'originale emozione viscerale. Superata la contemplazione statica tradizionale e la fruizione ininterrotta che caratterizza gli anni '60, siamo in presenza di una nuova contemplazione emozionale ottenuta attraverso la sospensione temporale. I blob non descrivono un momento di equilibrio statico, ma traducono in forma fisica un processo dinamico; l'intero dinamismo dell'azione è racchiuso nell'istante di massima tensione formale, che può essere contemplato all'infinito, osservato da innumerevoli prospettive, esperito come un personale piano sequenza sempre all'acme di un climax ascendente. Osservando in rapimento estatico queste architetture portate allo stato limite ultimo della tensione formale permane sempre, però, un vago senso di disagio. Forse la sgradevole sensazione nasce dal timore che questo istante eternato non rappresenti tanto l'apice di un processo dinamico in crescendo, quanto più l'ultimo canto del cigno, il presagio dell'imminente collasso di questo sistema architettonico e sociale.
Claudio Bosio