Partecipazione (non) è (solo) progettazione – Raymond Lorenzo

intervista a Raymond Lorenzo, presidente di ABCittà

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Raymond Lorenzo Raymond Lorenzo architetto, nato a New York nel 1949, laureato in Ingegneria alla Columbia University, master in Pianificazione Urbana a Harvard, docente di Urbanistica alla City University di New York dal 1980 al 1984. Presidente, responsabile tecnico scientifico e socio fondatore della Cooperativa ABCittà.

Membro del comitato scientifico del Child Friendly Cities Initiative UNICEF e del comitato di redazione del Children and Youth Enviroments Web Journal Colorado University.Ha esercitato consulenze tra gli altri per: CNR Italia, Kellog’s Foundation, UNICEF, WWF Italia, Regione Umbria, Istituto degli Innocenti di Firenze, Ministero dell’Ambiente.

Ha coordinato numerosi progetti in Italia e all’estero
per l’elenco completo, consultare il sito di ABCittà www.abcitta.org

 

Ci sono differenze tra progettazione partecipata e fasi preliminari dell’architettura?
L’apporto dei destinatari al progetto sminuisce il ruolo dei tecnici? Le interessanti prospettive di lavoro per gli architetti nella “partecipazione” impongono un rapido chiarimento di idee!

Chi meglio di Raymond Lorenzo, responsabile tecnico-scientifico della Cooperativa ABCittà (di cui è anche presidente e socio fondatore), può presentare – con sano pragmatismo anglosassone – la situazione che attende gli architetti disposti a passare dai progetti ai “processi”?

In fondo, la scelta è meno traumatica del previsto, perché “…anche senza avviare in tutti i progetti un processo di partecipazione,…per sviluppare un buon progetto è necessario conoscere il luogo e interagire – se non fisicamente, almeno mentalmente – con chi lo abita“.

 

Intervista

di Francesca Bizzarro

1. È curioso che lei, da ingegnere, a un certo punto abbia intrapreso [con un master in City Planning ad Harward, ndr] un corso di studi più vicino al curriculum dell’architetto. Come mai? Ritiene che la figura dell’architetto sia più predisposta alla progettazione partecipata?

La mia formazione è avvenuta negli anni ‘60 in un periodo di grande fermento: ad Harward e alla Columbia ho avuto la possibilità di incontrare le “madri” e i “padri” di questa disciplina. Le esperienze di quel periodo, anche in ambiti legati non tanto alla partecipazione, ma all’educazione al cittadino (educazione ambientale, progetti per stimolare il pensiero del bambino o dei cittadini nel ragionamento sulla città), mi hanno convinto che l’architetto è come il pedagogista: ha le competenze necessarie per portare avanti processi di partecipazione perché possiede – o dovrebbe possedere – capacità di sintesi, è in grado di realizzare una programmazione a partire da determinati obiettivi, sa analizzare il contesto, individuare tutti i fattori che contribuiscono a un progetto e, inoltre, ha dimestichezza con gli strumenti grafici di rappresentazione. Devo dire, però, che a volte la formazione degli architetti può inculcare atteggiamenti in contrasto con la partecipazione: la tendenza a pensare individualmente e/o settorialmente, a considerarsi in primo luogo un’artista, a privilegiare la “forma” alla “sostanza” e altro ancora.

Comunque, negli Stati Uniti molti dei professionisti che trattano meglio la partecipazione sono proprio architetti, o architetti del paesaggio, che scelgono di affrontare con un approccio partecipato qualsiasi incarico, cercando di conoscere gli utenti finali e interagendo con i soggetti potenzialmente interessati dal progetto. Tutto questo anche senza la sollecitazione da parte di un’amministrazione pubblica: in Italia normalmente è l’Ente pubblico che vuole gestire la partecipazione, mentre da noi sono gli stessi professionisti a rendere il lavoro di architetto più partecipato.

2. In America quindi è il progettista che sviluppa un processo partecipativo e lo sottopone a un Ente o a un finanziatore privato per portarlo avanti?

Un processo di partecipazione può essere sviluppato anche indipendentemente dagli Enti che tra l’altro in America sono molti di meno. Un professionista che opera con questo metodo trova clienti, soprattutto tra le persone che non vogliono solo costruire per interessi speculativi o per realizzare un bel progetto, ma vedono nell’architettura la valenza sociale della possibilità di migliorare le condizioni di chi va a vivere in un certo quartiere, palazzo, scuola, ufficio. Questa impostazione viene dalla partecipazione, ma anche da un approccio interdisciplinare alla progettazione, in cui si considerano importanti gli studi sociologici. Tutti gli elementi che potrebbero contribuire alla conoscenza del tempo e del luogo sono elementi importanti del processo di partecipazione, che non significa solo ascoltare, partecipare, progettare per tanti, ma anche fare riferimento a un grande retroterra di studi su temi legati al sociale in architettura, alla psicologia dell’ambiente, all’antropologia urbana.

3.Secondo lei, si può affermare che il fulcro della progettazione partecipata è una forma di dialogo, di interazione?

Noi di ABCittà attribuiamo grande importanza alla conversazione sociale, perchè intendiamo la partecipazione come uno strumento che può non solo migliorare il progetto, ma anche creare e rinsaldare il capitale sociale attraverso il processo di coinvolgimento – specialmente nei quartieri emarginati – delle persone nel progetto. Un processo gestito bene contribuisce a ricostruire quelle reti di interazioni sociali e, al meglio, di mutuo soccorso che, dopo la realizzazione di un progetto, consentono di gestire più efficacemente le risorse impegnate in un determinato luogo. Ci sono persone che considerano la partecipazione una pratica legata a motivazioni più alte di democrazia, e sostengono che, per rendere migliori le decisioni pubbliche o private, ma soprattutto pubbliche, dovrebbero essere coinvolti tutti i cittadini con diversi livelli di controllo e di potere. D’altra parte, c’è chi sostiene che la progettazione partecipata faccia diminuire la qualità del progetto, ma anche chi afferma che la qualità estetica di un progetto collegato a un processo partecipato è più alta. Io condivido in parte questa ultima posizione, ma non fino in fondo. Architetti come Giancarlo De Carlo, anche senza avviare in tutti i progetti un processo di partecipazione, sanno bene che, per sviluppare un buon progetto è necessario conoscere il luogo e interagire – se non fisicamente, almeno mentalmente – con chi lo abita.

4. Nella situazione italiana, la progettazione partecipata può rappresentare un effettivo sbocco professionale, sia da freelance, sia da dipendenti di strutture come ABCittà?

Quando sono arrivato dagli USA nell’85, a parte due o tre “pazzi” sperimentatori, non si parlava proprio di progettazione partecipata. Adesso c’è molta più apertura perchè sono proprio gli strumenti dell’urbanistica a richiedere la partecipazione. Inoltre esistono anche più scuole che la inseriscono – bene o male – nei loro programmi. Noi non siamo una cooperativa di architettura, cioè facciamo partecipazione fino alla consegna del progetto, ma non possiamo progettare – anche se stiamo pensando a come riorganizzarci. Normalmente ci affianchiamo agli enti locali o ai professionisti privati incaricati dei progetti, per curare la costruzione del percorso di partecipazione ed interpretare i risultati per / con i progettisti …

5. … c’è anche un ritorno economico? Questa pratica progettuale consente poi di vivere del proprio lavoro?

Io direi che finora in Italia è tutto troppo legato agli investimenti pubblici. Questo vuol dire essere legati agli umori dei politici, ai tempi, ai cambi… Come ABCittà stiamo curando diversi contratti di quartiere (CdQ) qui a Milano, nell’hinterland. Abbiamo lavorato un po’ anche in Umbria nella prima fase dei CDQ II…è molto difficoltoso relazionarsi all’apparato pubblico: nel privato, invece, intravedo margini per i giovani che abbiano spirito di iniziativa. Comunque, un mestiere così complesso non s’inventa, ci vuole formazione.

6. Formazione teorica o formazione diretta sul campo?

Direi tutte e due. Diretta sul campo è molto più importante, ma deve essere affiancata da studi teorici, cioè da riflessioni e, a volta, dall’insegnamento… È quello che stiamo facendo anche noi. Ci mettiamo al servizio della gente come cooperativa, ma in parallelo ci aggiorniamo continuamente… Ogni volta che un progetto ci porta in un nuovo ambito, facciamo ricerche, studiamo, invitiamo anche consulenti che magari non sono del nostro campo, ma si intendono più di noi di mediazione di conflitti o di rapporti interculturali. La liberalizzazione delle tariffe e della professione potrebbe far aumentare questo tipo di opportunità, perché sappiamo che la percentuale destinata all’architetto certe volte è irrisoria rispetto al compito che gli viene assegnato, sopratutto per piccoli progetti… Se però uno può aumentare il costo e presentare un progetto migliore proprio perché applica la progettazione partecipata…il discorso cambia!

7. Esiste un limite alla partecipazione dei destinatari del progetto allo sviluppo del progetto stesso?

Evidentemente dei limiti ci sono. In Italia esistono anche delle leggi che non consentono di andare oltre un certo punto…poi dipende dal rapporto che le persone hanno con il progettista. Personalmente credo che l’abitante non sappia più dell’architetto o del progettista riguardo al loro mestiere, ma magari riguardo ai propri bisogni, alla propria speranza per il futuro…Il discorso risente anche un po’ del contesto: dove c’è più immaginazione e più povertà, c’è più spazio per un ambiente autocostruito dalle persone, ma affiancate dagli architetti.

8. In un’ottica di partecipazione, i GIS possono facilitare l’aggiornamento, la crescita delle strutture, delle città, dell’architettura, in relazione al cambiamento degli utenti, dei cittadini?

Sistemi in grado di documentare la situazione attuale potrebbero essere di grande utilità, per comunicare ai cittadini l’evoluzione di un luogo, consentendogli di interagire ed eventualmente cominciare a cambiare la situazione. Lo scopo sarebbe guidare i processi in base al dato reale o, per lo meno, quanto più vicino alla realtà…Comunque bisogna puntualizzare. C’è chi cerca di far passare l’informazione come partecipazione, per esempio alcuni enti: l’informazione non è la partecipazione, però l’informazione chiara, obiettiva e in evoluzione, come quella offerta dai GIS, è fondamentale per qualsiasi processo di pianificazione e anche di partecipazione.

9. In altri Paesi sono state realizzate esperienze in questo senso?

Alcuni giovani stanno cominciando a sperimentare in Inghilterra, utilizzando dispositivi come l’ i-pod o gli altri lettori mp3, per accedere a dati che sono nell’ambiente virtuale, anche per permettere di riprogettare delle aree sulla base del feedback di chi vi è entrato con strumenti informatizzati. La valutazione da parte delle persone che visitano uno spazio può essere comunicata e aggiornata in tempo reale.

10. Mi sembra di capire che ABCittà ricorra a collaboratori esterni o comunque a figure che integrano il nucleo fondatore. Quali canali utilizzate? Vi rivolgete ad agenzie di recruiting?

Su questo argomento, passo la parola ad Annalisa Rossi Cairo, Responsabile Generale di ABCittà.

Le modalità di reclutamento dei collaboratori sono state diverse nel tempo, perché strettamente correlate alla nostra situazione del momento, alla quantità e alla qualità delle commesse che abbiamo. Inizialmente, per molto tempo, il gruppo dei senior ha coinvolto nuovi collaboratori attraverso la modalità del tirocinio. Da parte dell’università riceviamo tantissime richieste, di persone che vogliono fare un’esperienza di stage presso di noi. Spesso è successo che le persone, dopo lo stage, per assonanze e affinità non soltanto sui contenuti, ma anche rispetto al modo di lavorare, siano poi rimaste con noi e abbiano quindi rappresentato una crescita per ABCittà. Il Politecnico di Milano, oppure Scienze ambientali o Scienze dell’educazione: diciamo che queste sono le tre macroareee da cui abbiamo attinto finora. Ora abbiamo bisogno di profili più specializzati e quindi ci stiamo muovendo in modo diverso… Comunque, uno dei grossi bacini di reclutamento rimane il Politecnico.

11. Al di là del forte legame con la Lombardia o, comunque con il territorio che gravita intorno al Politecnico, vi siete rivolti anche a Università di altre parti d’Italia, per non dire d’Europa?

Sì. Abbiamo presso di noi anche moltissime persone provenienti dallo IUAV di Venezia, da Roma, da tutta Italia. Naturalmente Milano è predominante, perché comunque anche il tam tam, le conoscenze costituiscono un canale fondamentale.

12. Al momento, quali sono le figure che possono essere più interessanti per realtà come la vostra? Mi riferisco comunque sempre a laureati in Architettura, pianificatori…Quale caratteristica devono avere (conoscenza delle lingue, particolari tecniche di interazione…)?

La conoscenza delle lingue è molto importante e, in particolare, è fondamentale la dimestichezza con l’Inglese, dal momento che ci muoviamo in un ambito fortemente legato alla cultura anglosassone. Il lavoro nella progettazione partecipata è riconducibile a due ruoli principali: uno è il facilitatore, che lavora sul territorio con le attività, con i gruppi e facilita il coinvolgimento degli abitanti; l’altro, quello che noi chiamiamo il coordinatore di progetto, che è non soltanto il responsabile dell’equipe di cui fanno parte i facilitatori, ma deve anche coordinare il gruppo locale del progetto, un gruppo territoriale composto da tutte le figure coinvolte – istituzionali e non. Il coordinatore deve avere competenze a 360 gradi, conoscere la materia, i contenuti su cui viene costruito il processo, la strategia della partecipazione, ma conservando la flessibilità necessaria per riuscire a muoversi nella complessità e relazionarsi con le istituzioni. Deve possedere quindi anche sensibilità e capacità di ascoltare, ponendosi come una risorsa e non come un docente in cattedra!

13. In Italia sarà difficilissimo trovare figure del genere…

Sì… mentre quella del facilitatore è più diffusa.

14. ABCittà è coinvolta nelle iniziative della Scuola di Alta Formazione per la progettazione partecipata…

Abbiamo formato un consorzio di tre gruppi: Ilex, che opera sul paesaggio; Focus Lab, un gruppo di Modena che lavora sopratutto nel campo di agenda 21 (urbanistica, piani strategici complessi – sociali e ambientali); e noi di ABCittà, che siamo più concentrati sul filone dell’urbanistica sociale e dell’infanzia. Abbiamo formato questa scuola pensando che potesse riempire lacune nella formazione…

15. Anche in alternativa a un master?

Voglio puntualizzare che il percorso formativo da noi organizzato non è riconosciuto (non abbiamo mai compiuto i passaggi burocratici necessari). Abbiamo visto, però, che il ritorno è comunque importante. Cerchiamo di rivolgerci a giovani professionisti che vogliano entrare nel settore…alcuni sono bravi, interessati, e, se si crea un feeling, dopo lavorano con noi...

 

Per saperne di più, visitare il sito: www.abcitta.org

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ABCittà società cooperativa sociale onlus
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