Gli interventi su edifici vincolati restano prerogativa dell'architetto, ma non del tutto. Ieri la Corte Ue si è pronunciata sulla annosa questione che riguarda le competenze di architetti ed ingegneri civili negli interventi su beni vincolati. Una materia che la legge italiana riserva agli architetti pur consentendo all'ingegnere di intervenire nella parte tecnica. È dal 1925 che le competenze sono così suddivise, a stabilirlo è infatti il Regio decreto 2537/25. Ma con la sentenza della Corte Ue qualcosa cambia.
La Corte ha affermato di non poter entrare nelle questioni interne del nostro Paese, dunque il Regio decreto resta ancora valido: gli ingegneri laureati in Italia non possono effettuare in autonomia interventi su beni vincolati. Lo stesso non vale però per gli ingegneri degli Stati membri. Ad essi, in base alla direttiva 85/384 CE e secondo la sentenza di ieri, l'Italia non può precludere l'accesso alle attività del settore dell'architettura. Conseguenza: un ingegnere civile laureato all'estero può - se il titolo glielo permette - occuparsi di un restauro senza essere affiancato dall'architetto, ma lo stesso non vale per un ingegnere civile laureato in Italia.
Una discriminazione ed una disparità di trattamento indubbie, giustificate dalle leggi vigenti.
La legge italiana e la direttiva europea
Il Regio decreto 2537/25 all'articolo 52 stabilisce che «le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla legge 20 giugno 1909, n. 364, per l'antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall'architetto quanto dall'ingegnere».
Su questo la Corte Ue non può intervenire. Due le ragioni. Innanzitutto si tratta di una «situazione puramente interna» - si legge nella sentenza - rispetto alla quale la Corte non è competente a rispondere. La seconda ragione è da ricercare nella legge comunitaria, che non è in contrasto con il Regio decreto. La direttiva europea chiamata in causa è la direttiva 85/384/CE sui requisiti dei titoli di accesso all'attività del settore dell'architettura. Essa riguarda esclusivamente il riconoscimento automatico di tali titoli tra gli Stati membri ma non disciplina le condizioni di accesso alla professione di architetto.
Dunque la restrizione di competenze attuata dall'Italia è legittima e la Corte non può intervenire: «spetta alla normativa nazionale dello stato membro ospitante individuare le attività rientranti in tale settore» conclude la sentenza.
La conclusione della sentenza della Corte Ue
Anche se l'Italia ha applicato la restrizione contenuta nel Regio decreto, non può richiedere ai laureati all'estero - in possesso di un titolo che secondo la direttiva 85/384 è abilitante all'esercizio di attività nel settore dell'architettura - di dimostrare il possesso di particolari qualifiche nel settore dei beni culturali. Ciò sarebbe in contrasto infatti con la stesa direttiva che prevede il mutuo riconoscimento automatico dei titoli del settore dell'architettura che soddisfano le condizioni di formazione in essa contenute.
In definitiva, stabilisce la sentenza: «l'accesso all'attività prevista all'art.52, secondo comma, del Regio decreto n.2537/25, vale a dire alle attività riguardanti immobili di interesse artistico, non può essere negato alle persone in possesso di un diploma di ingegnere civile o di un titolo analogo rilasciato in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana, qualora tale titolo sia menzionato nell'elenco redatto ai sensi dell'articolo 7 della direttiva 85/384 o in quello di cui all'articolo 11 di detta direttiva».
di Mariagrazia Barletta architetto
Leggi la sentenza: SENTENZA DELLA CORTE (Quinta Sezione) 21 febbraio 2013.
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