Il tema dell'abolizione del valore legale del titolo di studio ritorna a far discutere. A far scattare la scintilla è un contrastante emendamento al disegno di legge delega sulla riforma della pubblica amministrazione, il cosiddetto DDL Madia, in discussione alla Camera.
La proposta nasce con l'idea di superare la discriminate "voto di laurea" nella selezione dei futuri dirigenti e funzionari della PA. Ma l'effetto è un altro: nei concorsi pubblici il 110, la lode, o qualsiasi altro voto di laurea, potranno avere un peso diverso a seconda dell'università che li ha assegnati. Ad essere penalizzati sembra saranno i laureati di atenei che tendono a dare voti elevati con maggiore generosità.
In particolare, la Commissione Affari istituzionali ha approvato una modifica al testo avanzata dall'on. Marco Meloni e poi riformulata dal relatore, d'intesa con il Governo, che propone il superamento del «mero voto minimo di laurea come requisito di accesso ai concorsi pubblici» e la possibilità di valutarlo in modo differente a seconda dell'ateneo di provenienza.
È un emendamento che esprime due concetti in contrasto. Da una parte si chiede il «superamento del mero voto minimo di laurea» nei concorsi pubblici e dall'altro si prevede di «valutarlo in rapporto a fattori inerenti all'istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti». «Ad esempio - spiega l'on. Meloni alla stampa - il mio voto verrà considerato a seconda del voto medio che viene dato nella mia facoltà. Vogliamo impedire che gli studenti scelgano un certo indirizzo solo perché il meccanismo di valutazione è più generoso» [RaiNews] L'on. chiarisce anche che la proposta emendativa, prima della riformulazione «prevedeva semplicemente l'abolizione del voto minimo di laurea quale filtro per la partecipazione ai concorsi pubblici». [www.marcomeloni.eu].
La questione è annosa. Divenne tema di discussione durante il Governo Monti, nel 2012, e anche allora innalzò un polverone, fu anche sottoposta all'attenzione degli italiani attraverso una consultazione on line, della quale, però, non sono mai stati divulgati i risultati.
Il fulcro della questione è se sia giusto o meno assegnare al voto di laurea uno stesso "peso" a prescindere dall'università, sia essa un'eccellenza o meno. Probabilmente tra le Facoltà di architettura italiane non c'è nemmeno una differenza abissale di qualità, ma accettare l'idea di dover screditare il laureato di un'università perché questa concede il titolo con maggiore facilità, equivale ad accettare una sconfitta. Significa prender coscienza che in Italia una formazione di scarsa qualità è possibile e può essere mantenuta.
Soprattutto si tenta di risolvere il problema a valle, quando basterebbe andare a monte, per lavorare con impegno, come è giusto che sia, affinché la qualità della formazione sia elevata in tutto il Paese. Sarebbe un atteggiamento diverso dall'accettazione, che finirebbe, tra l'altro, per discriminare chi per ragioni economiche non può permettersi di frequentare un prestigioso ateneo.
Di certo, poi, il vero problema dei concorsi non è il punteggio attribuito al voto di laurea, ma la garanzia di uno svolgimento trasparente. Oggi non è certo il 110 o la lode a decidere il vincitore di una selezione pubblica. Il voto ha un peso minimo rispetto ai punteggi accumulati in tutte le prove, anzi, nei grandi concorsi non è affatto considerato in fase di preselezione, quando avviene la grande "scrematura" di concorrenti.
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