di MARINA PAGLIERI
Si trovava fino a ieri sera a Tel Aviv, Massimiliano Fuksas, per la posa della prima pietra del «Center for the peace» che lui stesso ha progettato e realizzerà a Jaffa, omaggio internazionale a Shimon Peres in occasione del suo ottantesimo compleanno. Ma nonostante la lontananza, ha voluto prendere parte al dibattito lanciato dalle colonne di Repubblica sull'architettura a Torino.
Soprattutto dopo il varo da parte della giunta del Comitato per la qualità architettonica, chiamato a vigilare, con la guida di Carlo Olmo e il contributo di tre esperti di prossima nomina, sui grandi progetti destinati a mutarne la conformazione urbana.
Fuksas, che non ha mai nascosto un vivo interesse per questa città, pur non risparmiando a sua volta le critiche, è consapevole del fatto che «la città si stia giocando il suo futuro». Ha preso parte in passato alla discussione sul nuovo Museo Egizio, è stato membro della commissione che ha affidato lo scorso anno all'architetto Isozaki la progettazione del Palahockey che sorgerà a fianco del Comunale.
A Torino sta realizzando ora il nuovo Mercato dell'Abbigliamento a Porta Palazzo, avrà inoltre la sua firma il Palazzo unico della Regione, una torre di vetro alta cento metri che verrà costruita sulla Spina 1, se arriverà il via libera del Comune per l'avvio del cantiere.
Architetto Fuksas, come giudica la nascita di questo Comitato? «Vorrei fare una premessa: la buona architettura è data dai buoni architetti e non dalle commissioni. Detto questo, ben venga un organo di controllo, purché i suoi membri si comportino liberamente e non assumano atteggiamenti "mafiosi". Ho fatto parte di un'analoga commissione a Salisburgo, con assessori, funzionari, altri architetti: gli esiti sono stati di livello alto, perché i progetti proposti erano buoni. Credo in definitiva che la commissione per la qualità architettonica sia uno strumento, ma che le soluzioni stiano altrove».
Dove secondo lei?
«Intanto ci devono essere degli imprenditori che siano tali e non dei faiseurs, dei maneggioni. Poi, occorre creare una buona scuola di architetti. Infine, è necessario che ci siano committenti forti».
Torino può vantare secondo lei questi requisiti?
«Non credo che si possa distinguere fra Torino e il resto dell'Italia, il paese si assomiglia e la situazione nazionale è nel complesso critica. Torino però si differenzia in una cosa, nello sforzo di affidare le sue opere a buoni architetti: Arata Isozaki, Gae Aulenti, Renzo Piano e il suo intervento al Lingotto, per non citarne che alcuni. Diciamo che la città ha approfittato della particolare situazione che sta attraversando, con le riconversioni industriali e i cantieri per le Olimpiadi del 2006, per puntare in alto».
Dunque non è troppo negativo sulla città.
«Per niente, anche perché il grosso deve ancora venire. In passato l'architettura è stata negletta, ora è diverso. Tornando al Comitato da poco istituito, occorre che gli architetti chiamati a dire la loro si stacchino dalle proprie attitudini. Mi spiego con un esempio. Se un mio lavoro dovesse essere valutato da una commissione in cui siede Vittorio Gregotti, lui lo boccerebbe comunque in partenza, io invece non mi comporterei così. Questi comitati insomma a volte vanno bene, a volte no. Bisognerebbe chiamare a farne parte persone che non abbiano interessi diretti. Penso alla funzione che svolgevano un tempo Sandro Pertini o l'Avvocato Agnelli, penso anche, ora, al presidente Ciampi. Per concludere su Torino, devo dire che il peggio è passato, qualcosa di buono sta uscendo fuori».
A parte Salisburgo, lei ha esperienza di altri comitati che hanno operato in città in trasformazione?
«A Barcellona le cose sono andate così così, meglio a Berlino. Là ho fatto parte per tre anni di una commissione per la trasformazione della città: un lavoro difficile, se me lo chiedessero non lo farei più. Ecco, diciamo che in questo campo quello che dovevo fare l'ho fatto. Insomma, ho già dato».
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