Articolo di Vittorio Gregotti
Nei giorni scorsi si è svolta a Milano la fiera del grattacielo, una fiera di provincia, con molti Dulcamara, dove un selezionato gruppo di architetti internazionali buoni e cattivi (ma soprattutto interessati al mercato italiano dei grossi concorsi) si è prestato al rilancio pubblicitario di un prodotto che, anche se vecchio di più di un secolo, dimostra tutta la sua resistenza.
Ciò è dovuto a una serie di fattori: dimostrazione di potenza (senza disturbare gli ovvi riferimenti fallici) di capacità tecnologica, di efficienza, con la copertura ideologica del basso consumo di suolo, un impatto visivo importante e una capacità di promuovere l´immagine di marca: pubblica o privata che sia. Naturalmente, come ogni medaglia, ha il suo rovescio: dopo che il Bahrein o Kuala Lumpur hanno i loro grattacieli, dopo che a Shanghai se ne sono costruiti quattromila duecento dai cento metri in su di altezza, si tratta di una merce piuttosto comune e ampiamente svalutata sul piano del marketing urbano. Se poi pensiamo ai miracoli tecnici del XXI secolo guardiamo piuttosto alla microbiologia, certo non alla costruzione edilizia. Quanto all'occupazione di suolo, siamo indotti a pensare più che a un risparmio, piuttosto a un suo più alto sfruttamento: non la speculazione edilizia (la costruzione dei grattacieli è in genere molto costosa), ma quella fondiaria.
Milano (ma anche Francoforte) non sono metropoli ma città di media dimensione in diminuzione di popolazione che si espande nell'hinterland, con gravissimi danni di consumo del suolo e costi infrastrutturali sproporzionati, ma che certo il grattacielo non risolve. Naturalmente nel grattacielismo c'è anche l'ambizione degli architetti (oltre che degli amministratori).
Anche se si tratta di una tipologia largamente esaurita, ogni architetto è felice di poter costruire il suo bell'edificio alto, sempre più alto. L'architettura, purtroppo, in generale c'entra poco.
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