«Le verande realizzate sulla balconata di un appartamento, in quanto determinano una variazione planovolumetrica ed architettonica dell'immobile nel quale vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo rilascio di permesso di costruire». A dirlo è il Consiglio di Stato in una recente sentenza (la numero 1893 del 2018).
Nessuna eccezione può essere fatta in base al tipo di materiale utilizzato. Le verande sono «strutture fissate in maniera stabile al pavimento che comportano la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica del prospetto. Né può assumere rilievo la natura dei materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento volumetrico», si legge ancora nella sentenza.
Oggetto del contendere erano infatti due verande realizzate in un appartamento a Roma. Più in particolare «una veranda con struttura in alluminio e vetri con grigliato ligneo esterno di metri 1,50 per 4,00 circa adibita a lavanderia (lato cortile), e di«una veranda con infissi in alluminio, priva di vetri di metri 1,00 per 2,00 circa adibito a ripostiglio».
La sentenza di Palazzo Spada ricorda anche l'adozione del regolamento edilizio-tipo, nel quale la veranda è stata definita (Allegato A) come un «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
È inoltre da escludere che la trasformazione di un balcone o di un terrazzo in veranda costituisca una «pertinenza» in senso urbanistico. La veranda genera un nuovo locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie.
Nessun dubbio, dunque, sulla legittimità della sanzione irrogata dal Comune che aveva ingiunto la demolizione delle due verande, in quanto realizzate in assenza di titolo abilitativo.
di Mariagrazia Barletta
La sentenza del Consiglio di Stato numero 1893 del 2018
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