Per risolvere il problema del dissesto idrogeologico servono almeno 26,58 miliardi di euro. Tale è il valore delle richieste provenienti dagli enti locali registrati sulla piattaforma Rendis (Repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo) che ammontano complessivamente a 7.811. Sono cifre che emergono dalla scheda tecnica sul dissesto idrogeologico elaborata dal Centro Studi del Consiglio nazionale degli ingegneri (Cni).
Dati che - secondo i ricercatori - non devono sorprendere se si considera che 6,8 milioni di abitanti risiedono in aree a rischio alluvionale medio e 2,4 milioni vivono in zone alluvionali ad alto rischio, complessivamente il 15% della popolazione. Gli edifici in zone alluvionali ad alto e medio rischio sono 2,1 milioni, il 15% del totale.
Negli ultimi 20 anni - spiegano al Centro studi - la spesa per interventi è stata pari a 6,6 miliardi di euro, per un totale di 6.063 interventi ed un valore medio di poco superiore a 300 milioni di euro. Si stima, dai diversi dati disponibili, che per innalzare in modo "efficace" il livello di sicurezza contro i rischi sempre più imminenti, servirebbero ancora 8.000 opere di prevenzione per una spesa poco inferiore a 27 miliardi di euro. A fronte di queste necessità, il Piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico (ProteggItalia) varato nel 2019, prevede per il periodo compreso tra il 2019 ed il 2030 stanziamenti per 14,3 miliardi di euro, parte dei quali destinati a opere emergenziali connesse ad eventi calamitosi, interventi di messa in sicurezza dei territori ed infrastrutture, interventi per la mitigazione del rischio idraulico e idrogeologico.
A queste risorse - continua la nota del Cni - si aggiungono quelle messe a disposizione dal Pnrr pari a 2,4 miliardi di euro per "Misure per la gestione del rischio alluvionale e per la riduzione del rischio idrogeologico" nell'ambito della missione "Rivoluzione verde e transizione ecologica". Per il breve periodo, dunque, sembrano esservi risorse pubbliche relativamente sufficienti per effettuare almeno gli interventi più urgenti.
Sempre secondo le valutazioni del Centro studi Cni, le criticità appaiono legate piuttosto ad altri fattori. Intanto bisogna tenere conto che il "fronte" del rischio e del dissesto idrogeologico è talmente diffuso nel territorio che servirebbe un'opera continua e capillare di intervento che rivela dei limiti oggettivi. Agire su rinforzi spondali, su golene, corsi d'acqua, manutenzione di aree abbandonate, richiede attività di monitoraggio, progettazione ed intervento che non sempre possono essere realizzati in tempi brevi. Inoltre, esistono elementi legati alla programmazione che agiscono da ostacolo.
La durata media totale delle opere è di 4,8 anni. Quasi la metà di questo tempo va via nelle pratiche amministrative e nei cosiddetti tempi morti. C'è poi il tema del consumo del suolo che fa sì - rilevano i ricercatori - che il problema della impermeabilizzazione del terreno in Italia non accenna a diminuire. Del resto in Italia la copertura artificiale del suolo è al 7,13% della superficie totale a fronte di una media del 4% in Europa.
Perrini: «Serve agire in fretta rimodulando i meccanismi dei Piani di prevenzione»
«Contro il dissesto idrogeologico - afferma Angelo Domenico Perrini, presidente del Cni - serve agire in fretta rimodulando i meccanismi di gestione dei Piani di prevenzione e contrasto oggi esistenti. Non servono solo risorse finanziarie più consistenti del plafond di 16 miliardi oggi disponibili, ma un sistema più snello di gestione non tanto delle emergenze quanto degli interventi di prevenzione. A dirlo è con molta chiarezza la Corte dei Conti, che già nel 2021 ha individuato gli elementi di debolezza del sistema di intervento contro il rischio idrogeologico. Paradossalmente oggi disponiamo di un livello approfondito di conoscenza di dove e come intervenire, ma siamo troppo concentrati nel far fronte a casi emergenziali senza riuscire a porre in essere in modo capillare opere di prevenzione, che limiterebbero di molto i danni in caso di catastrofi».
«Scontiamo inoltre - continua il presidente degli Ingegneri - un limitato livello di manutenzione del territorio, norme e procedure di attuazione di misure di prevenzione ancora troppo farraginose, tempi di espletamento di procedure burocratiche più lunghi dei tempi per la realizzazione delle opere di prevenzione del rischio idrogeologico e carenza di figure tecniche presso gli Enti deputati a progettare opere di salvaguardia del territori. Focalizzarsi sul reperimento di risorse finanziarie in questo momento rischia di essere fuorviante, in quanto andrebbero radicalmente rimodulati la programmazione delle opere di prevenzione e le modalità di gestione delle stesse».
Margiotta: «Carente la programmazione di opere di prevenzione»
«Da una serie di elementi raccolti - afferma Giuseppe Maria Margiotta, presidente del Centro studi Cni - riteniamo che, relativamente al dissesto idrogeologico, vi sia una emergenza nell'emergenza, consistente nel fatto che, nonostante gli sforzi messi in atto negli ultimi anni dalle amministrazioni pubbliche e dal governo, la parte relativa alla programmazione di opere di prevenzione sia stata carente per le solite complessità procedurali, gli appesantimenti normativi ed ulteriori elementi noti nel nostro Paese. Serve un cambio di passo nella programmazione e serve il rafforzamento della capacità degli Enti locali di avviare rapidamente cantieri per la messa in sicurezza del territorio».
«Va detto, inoltre - prosegue Margiotta -, che i gravi eventi che hanno di recente colpito l'Emilia-Romagna devono spingere tutti, in primis noi tecnici, a cambiare prospettiva. Nel dibattito tecnico ed in quello relativo alla programmazione di interventi di contrasto del rischio idrogeologico deve essere presa in considerazione una variabile che molti fanno finta di non vedere o con cui preferiscono non confrontarsi, ovvero quella del cambiamento climatico che sta generando eventi estremi come quelli degli ultimi giorni. Dobbiamo essere coscienti che gli interventi di prevenzione, in particolare quelli legati al rischio idraulico, devono passare ad una sorta di livello 2.0, ovvero un upgrading degli standard a cui fino ad oggi si è fatto riferimento, che non saranno più sufficienti a fronteggiare situazioni finora poco conosciute».
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