Nelle monografie su Niemeyer raramente compare un progetto molto significativo, riscoperto dai critici solo negli ultimi decenni: l’Expo di Tripoli, in Libano.
Progettata tra il 1962 e il 1963 nella periferia sud della città, su un terreno un tempo ricoperto da alberi di arancio, non viene mai completato. Nel 1975, infatti, con l’inasprirsi del conflitto civile scoppiato in Libano, i lavori di costruzione vengono interrotti. Il cantiere viene abbandonato e il sito è occupato dalle milizie siriane, che lo usano come base per le truppe e come armeria fino agli anni ’90.
A causa dei periodi alternati di conflitti e tregue che affliggono il Paese, il Rachid Karame International Fairground – nome con cui è stata ribattezzata l’area – resta in stato di abbandono per lungo tempo, senza che venga formulato alcun piano di recupero né salvaguardia. Per la maggior parte dei cittadini di Tripoli l’immagine del sito resta legata al suo utilizzo durante la guerra e la sua natura brutalista fatica a creare una connessione con gli abitanti.
EXPO Tripoli, Oscar Niemeyer | Foto © Giovanni Emilio Galanello
Nel 2004 la Camera di Commercio e dell’Industria di Tripoli ha proposto di convertire l’area in un villaggio turistico, e qualche anno dopo è stata considerata la possibilità di riutilizzare gli edifici come polo fieristico per i commerci con l’estremo Oriente: le proposte sono state entrambe declinate.
L’edificio principale – un grande volume a forma di boomerang lungo 700 metri – è stato in poche occasioni utilizzato temporaneamente e parzialmente per conferenze e mostre.
In tempi recenti un gruppo di architetti locali, guidati da Wassim Naghi, si è mobilitato per tutelare il progetto da un degrado irreversibile, ripulendolo e occupandosi degli spazi verdi: le aiuole piantumate, l’erba curata e gli alberi da frutto creano un contrasto surreale con le strutture in cemento mangiate dal tempo. Gli attivisti stimano un investimento necessario di 40 milioni di dollari per poter mettere in sicurezza i padiglioni che costellano i 100 ettari di terreno.
EXPO Tripoli, Oscar Niemeyer | Foto © Giovanni Emilio Galanello
Nel 2019 è stato indetto un concorso di architettura per rilanciare l’area, prevedendo un’espansione che integri un centro di alta tecnologia con edifici semi interrati: non è chiaro tuttavia il destino degli edifici disegnati da Niemeyer all’interno di questa visione di riattivazione.
L’Expo di Tripoli rimane ora racchiuso in un nodo di strade e svincoli che sembrano voler negare l’accesso ai suoi pochi visitatori, per lo più stranieri, architetti o fotografi. Il grande ed esile arco dell’anfiteatro – uno stelo sfibrato -, il fungo dell’eliporto, la scarna e scrostata cupola dell’auditorium, il perimetro esile del padiglione libanese – un paravento traforato -, risuonano di un’eco malinconica. In questa sospensione, nell’impossibilità di intervenire, risuona più fortemente l’incertezza della sua condizione presente e di un futuro diverso, che appare sempre più sbiadito.
EXPO Tripoli, Oscar Niemeyer | Foto © Giovanni Emilio Galanello
Il Libano continua a non adottare alcuna normativa nazionale a tutela del patrimonio del Moderno e gli sporadici riusi di queste architetture – ridotte a ruderi dall’incuria e dalle romantiche frequentazioni di amanti dei relitti – affondano questo luogo metafisico in una condizione di dissolvenza programmata.
Prima di morire Niemeyer ha pubblicato un libro, “Il mondo è ingiusto” (Mondadori, 2012). Alcune delle righe più celebri di questo scritto riportano un pensiero fortemente centrato con il progetto di Tripoli, nella sua condizione presente: “L’architettura è solo un pretesto. Importante è la vita, importante è l’uomo, questo strano animale che possiede anima e sentimento, e fame di giustizia e bellezza”.
Allora, più importante di qualunque altro gesto – memoriale, celebrativo, commerciale, culturale – per rendere giustizia al suo creatore, bisognerebbe concedere alla vita di riappropriarsi di questo luogo, nelle sue forma più spontanee.
Ormai lontano dalle ragioni politiche ed economiche che lo hanno prodotto, avendo vissuto gli anni del conflitto in prima linea, dimenticato dalla terra e dalle mani a cui era stato affidato, aspetta solo di essere vissuto: non in quanto insieme di spazi potenzialmente funzionali, ma in quanto paesaggio, già abitato da quelle formazioni che sono andate aldilà della loro natura architettonica, per diventare biosfere.
EXPO Tripoli, Oscar Niemeyer | Foto © Giovanni Emilio Galanello
Giovanni Emilio Galanello, fotografo, si forma come architetto a Milano, iniziando a lavorare nel campo della fotografia con una ricerca sugli spazi della collettività nella città di Tokyo. Dopo alcune esperienze di apprendistato al fianco di diversi fotografi, avvia la propria attività lavorativa, collaborando fin da subito con studi di architettura internazionali e riviste di settore. Affianca al suo mestiere di fotografo di architettura l’attività di ricerca attraverso lo stesso medium fotografico, con un focus sui paesaggi dell’Uomo.
g-e-galanello.it
Francesca Gotti si laurea in architettura, interessandosi ai temi della memoria collettiva nei contesti metropolitani marginali e delle pratiche di rigenerazione spontanea. Dal 2015 inizia ad occuparsi di una rubrica su questi temi per la rivista ARK (Bergamo). A partire dallo stesso anno promuove a Bergamo, sua città natale, il progetto di riattivazione del vecchio carcere Sant’Agata come luogo di incontro e cultura, insieme all’associazione Maite. Nel 2018 fonda il collettivo thelovetriangle, insieme alla graphic designer libanese Rana Rmeily, indagando linguaggi installativi e interattivi. Dal 2019 è assegnista di ricerca presso il Politecnico di Milano per en/counter/points, progetto Europeo sulla riappropriazione degli spazi pubblici negletti.
Dal 2018 i due collaborano ad alcuni progetti di ricerca indipendenti, tra cui Telluriche (sulla ricostruzione della comunità di Norcia dopo il terremoto del 2016) e Anonima Plastica (un viaggio attraverso gli spazi conviviali informali del Libano, generati dall’utilizzo della sedia in plastica bianca monoblocco).
© RIPRODUZIONE RISERVATA